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Uma página gloriosa -
a greve da classe operária de Turim-
Enquadramento:
«A
 fornire l’occasione fu un provvedimento emanato dal regime per supplire
 alle difficoltà causate dai bombardamenti che introduceva un’indennità 
straordinaria per i lavoratori sfollati (concessione di 192 ore di paga,
 pari ad un mese di salario), provocando la reazione di quelli non 
sfollati che chiedevano l’assegnazione delle 192 ore per tutti.
Il 1° marzo, una prima agitazione programmata alla Fiat Mirafiori fallì senza riuscire a generalizzare la protesta.
Il
 5 marzo, ancora alla Fiat Mirafiori, alcuni reparti delle officine 
ausiliarie entrarono in sciopero, ma l’iniziativa non si estese a tutto 
lo stabilimento. L’agitazione riuscì invece negli stabilimenti delle 
Officine Rasetti dove l’astensione dal lavoro fu quasi totale.
La
 notizia delle proteste si diffuse ben presto tra i lavoratori delle 
altre fabbriche cittadine, innescando, come una miccia, una lunga serie 
di scioperi che durarono fino alla metà del mese diffondendosi poi in 
tutto il Piemonte e, da qui, nelle principali fabbriche lombarde, 
liguri, venete ed emiliane fino a provocare "la paralisi di tutta l’industria del Nord" [V. Castronovo, 1987].
Il
 6 marzo sospesero il lavoro per l’intera giornata i dipendenti della 
Microtecnica, e l’8 marzo l’agitazione si diffuse a "macchia di 
leopardo" coinvolgendo contemporaneamente altri stabilimenti cittadini.
La
 protesta degli operai torinesi era per il regime una fonte di grande 
preoccupazione: la mattina del 9 marzo, Carmine Senise, capo della 
polizia inviava a tutti i prefetti un telegramma per informarli come "una notevole percentuale operai si est astenuta contemporaneamente dal lavoro. Pregasi mantenersi vigilantissimi" [U. Massola, 1973].
 Le parole di Senise caddero però nel vuoto. A Torino lo sciopero era 
ormai lanciato e coinvolgeva una porzione sempre più compatta di 
lavoratori che rivendicavano l’aumento del salario e la concessione 
dell’indennità di sfollamento (192 ore).
L’11
 marzo a Roma Mussolini esprimeva la sua ostilità riguardo agli scioperi
 torinesi davanti al direttorio del Partito Fascista augurandosi che 
Torino non desse "anche in questa guerra, l’esempio che diede nella 
scorsa, nel 1917" [E. e D. Susmel, 1966]. La mattina dello stesso giorno, altri dieci stabilimenti fermavano i macchinari.
Gli
 scioperi continuarono coinvolgendo un maggior numero di lavoratori ai 
quali si univano, dal 12 marzo, anche i tranvieri che esigevano il 
pagamento del carovita e delle 192 ore.
La durissima repressione (furono
 circa 850 gli arresti e centinaia i ritiri degli esoneri) e la 
sostanziale concessione delle principali rivendicazioni economiche (fu 
accordata l’indennità di guerra) fecero spegnere giovedì 18 marzo marzo 
la protesta di circa “100.000 operai torinesi”; così li quantificava l’Unità del 15 marzo 1943.
Le
 giornate del marzo 1943 rappresentarono un evento rilevante non 
solamente sul piano economico ma soprattutto su quello politico: 
infatti, il malcontento economico “aveva fatto da base ad una protesta 
che i manifestanti comunisti avevano indirizzato contro la guerra e il 
fascismo”. [R. Battaglia, 1964].
Il regime, che era stato costretto a "rispondere positivamente ad un’iniziativa partita dagli operai" [C. Dellavalle, 1980],
 appariva ora fortemente ridimensionato, messo a nudo in tutti i suoi 
punti deboli, : viceversa gli operai apparivano come il primo soggetto 
sociale in grado di contrastare la politica fascista per altro in grave 
crisi.
Le giornate del marzo 1943 erano perciò destinate a non rimanere un episodio isolato.
L’estensione
 ad altre aree e ad altre città della protesta stava a sottolineare che 
gli scioperi degli operai torinesi avevano dato voce ad una situazione 
di grave e diffuso disagio. E assumevano perciò una valenza politica 
generale.
Caduto
 il regime fascista il 25 luglio del 1943, il governo Badoglio per 
scongiurare ogni forma di protesta mantenne un rigido controllo nelle 
fabbriche utilizzando anche l’esercito. Tra
 il 17 e il 20 agosto dello stesso anno gli operai torinesi entrarono in
 sciopero per richiedere l’uscita dell’Italia dal conflitto. Furono i 
bombardamenti del 16 di agosto che provocarono ingenti danni alla città,
 la scintilla che fece esplodere il malcontento operaio, [tabella 12]. 
La
 mattina del 17 agosto la protesta iniziò alla Grandi Motori assumendo 
connotazioni drammatiche (all’uscita degli operai dalla fabbrica le 
truppe avevano risposto con il fuoco provocando il ferimento di sette 
operai, uno dei quali morì) e si diffuse, nei giorni successivi in tutte
 le altre fabbriche cittadine. Una prima avvisaglia di sciopero si ebbe 
il 18 agosto, quando le maestranze delle Officine Rasetti e della Grandi
 Motori si astennero dal lavoro, ma fu il 19 agosto che l’astensione dal
 lavoro fu totale: le fabbriche si fermarono supportate nella protesta 
dai tranvieri e dalle categorie degli impiegati, degli artigiani e dei 
commercianti.
Il giorno successivo arrivò a Torino il ministro del lavoro Piccardi che raggiunse con i rappresentanti degli operai importanti accordi:
 il riconoscimento delle commissioni interne, la scarcerazione dei 
detenuti politici e il ritiro dalle officine delle truppe e dei carri 
armati e il 21 agosto le fabbriche torinesi riprendevano regolarmente il
 lavoro
Gli
 scioperi dell’agosto del 1943 si differenziarono da quelli del marzo 
per la modalità di esecuzione (i lavoratori uscirono dalle officine e si
 riversarono lungo le strade cittadine) e per le rivendicazioni: la fine
 della guerra si univa ad un altro tipo di richieste (ritiro delle 
truppe dagli stabilimenti, scarcerazione dei detenuti politici, ritardo 
del coprifuoco, libertà di stampa e la rimozione dalle cariche civili e 
militari dei funzionari fascisti che avevano dimostrato atteggiamenti 
brutali contro gli operai) che davano alle lotte dei lavoratori un 
marcato tratto di politicità.
La
 caduta del regime avrebbe dovuto coincidere con la fine della guerra: 
questa era l’interpretazione comune non solo agli operai, ma anche a 
gran parte della popolazione, e le agitazioni di agosto promosse dai 
lavoratori torinesi ebbero il merito di tradurre quello che era un 
"desiderio diffuso in necessità politica" [C. Dellavalle, 1980].
L’occupazione
 tedesca, in seguito alla crisi dell’8 settembre, ebbe sull’industria 
piemontese pesanti riflessi negativi, facendo registrare una generale 
caduta degli indici produttivi.
A
 ciò si doveva aggiungere il peggioramento delle condizioni operaie 
dovute all’inconsistenza dei salari in relazione al costo della vita 
(aumentato in seguito all’occupazione nazista), alle pessime condizioni 
di lavoro all’interno delle fabbriche e alle difficoltà nel reperimento 
di generi alimentari di prima necessità (oramai disponibili solo alla 
borsa nera dove avevano raggiunto prezzi molto elevati), motivi che, 
verso la metà di novembre, innescarono una nuova ondata di proteste.
Il
 16 novembre lo sciopero iniziava alla Fiat Mirafiori, dove tutti i 
quadri dello stabilimento (operai, tecnici e impiegati) si astennero dal
 lavoro, dando l’esempio alle altre fabbriche torinesi. Tra il 17 e il 
20 novembre l’azione proseguì compatta: tutte le industrie cittadine 
erano in sciopero e nessun settore produttivo entrò in funzione.
I lavoratori chiedevano "l’aumento dei salari e delle razioni alimentari" [M. Giovana, 1962]
 e il 20 novembre gli operai decisero di inviare le ricostituite 
commissioni interne a trattare col comando germanico che promise 
miglioramenti se i lavoratori avessero ripreso il lavoro. In caso 
contrario il Reich tedesco non avrebbe più tollerato nessuna 
interruzione della produzione. Lo sciopero fu interrotto per una 
settimana e solo il 25 novembre le fabbriche riavviarono i macchinari.
Il
 30 novembre i vertici tedeschi, in un incontro con le commissioni degli
 operai Fiat, che però rappresentavano tutte le maestranze torinesi, 
resero note le loro proposte che non corrispondevano alle promesse fatte
 ai lavoratori: estensione a tutta la famiglia operaia del supplemento 
pane del 75% dato al capofamiglia; carte annonarie supplementari; blocco
 dei prezzi e aumento dei salari del 30%.
La
 reazione operaia a queste proposte giudicate insoddisfacenti non tardò 
ad arrivare e si materializzò in uno sciopero che coinvolse il mattino 
del 1° dicembre le maestranze di svariati impianti cittadini, senza però
 toccare lo stabilimento di Mirafiori (presidiato da reparti armati 
tedeschi), della Spa e dell’Aeronautica dove gli operai rimasero sotto 
il tiro delle armi tedesche fino alla ripresa del lavoro.
Le
 intimidazioni tedesche sugli operai di Mirafiori resero "orfani" della 
forza principale i lavoratori degli altri stabilimenti torinesi, che 
prolungarono lo sciopero di 48 ore, ma furono poi obbligati ad 
interromperlo.
Gli
 scioperi del novembre e del dicembre 1943 contribuirono comunque al 
raggiungimento di rilevanti obiettivi, economici e politici.L’aumento del 30% dei
 salari, la trasformazione dell’indennità concessa in aprile in 
indennità di presenza, l’estensione a tutti del pagamento delle 192 ore e
 il contributo in viveri che le aziende e i tedeschi si impegnavano a 
versare, costituivano infatti per i lavoratori torinesi delle 
concessioni tutt’altro che marginali sul piano economico.
Dal
 punto di vista politico gli scioperi rafforzarono invece le posizioni 
dell’antifascismo politico: gli operai rappresentavano un grande 
potenziale di conflittualità da riversare contro il regime nazifascista e
 furono proprio le maggiori voci di opposizione al regime (azionisti, 
comunisti e socialisti) a "orientare questa forza generale in senso più 
esplicitamente politico" [C. Dellavalle, 1993]. Tutto ciò avverrà con lo sciopero generale del 1° marzo 1944. »