05 março 2013

Um grande combatente do nosso tempo

Mas não morrem
nem a luta nem o sonho



«Hugo Chávez es un demonio. ¿Por qué? Porque alfabetizó a 2 millones de venezolanos que no sabían leer ni escribir, aunque vivían en un país que tiene la riqueza natural más importante del mundo, que es el petróleo. Yo viví en ese país algunos años y conocí muy bien lo que era. La llaman la "Venezuela Saudita" por el petróleo. Tenían 2 millones de niños que no podían ir a las escuelas porque no tenían documentos. Ahí llegó un gobierno, ese gobierno diabólico, demoníaco, que hace cosas elementales, como decir "Los niños deben ser aceptados en las escuelas con o sin documentos". Y ahí se cayó el mundo: eso es una prueba de que Chávez es un malvado malvadísimo. Ya que tiene esa riqueza, y gracias a que por la guerra de Iraq el petróleo se cotiza muy alto, él quiere aprovechar eso con fines solidarios. Quiere ayudar a los países suramericanos, principalmente Cuba. Cuba manda médicos, él paga con petróleo. Pero esos médicos también fueron fuente de escándalos. Están diciendo que los médicos venezolanos estaban furiosos por la presencia de esos intrusos trabajando en esos barrios pobres. En la época en que yo vivía allá como corresponsal de Prensa Latina, nunca vi un médico. Ahora sí hay médicos. La presencia de los médicos cubanos es otra evidencia de que Chávez está en la Tierra de visita, porque pertenece al infierno. Entonces, cuando se lee las noticias, se debe traducir todo. El demonismo tiene ese origen, para justificar la máquina diabólica de la muerte.»

Eduardo Galeano,
autor do fundamental
"As Veias Abertas da América Latina"



P.S.: Por mim, e a pensar em certos distraídos, só quero lembrar que o petróleo  não apareceu na Venezuela com a subida ao poder de Hugo Chavéz antes  já era é o principal sector da economia venezuelana desde a 1ª Guerra Mundial, o que significa que, durante quase um século de dominação oligárquica, essa riqueza nunca se traduziu em benefícios para a maioria daquele povo.
E Maria Farantouri canta agora
«Los Libertadores»
do "Canto General» de Pablo Neruda



No final, nos vídeos anexos ver também
"América Insurrecta" por Mikis Teodorakis

Alô Passos, Portas e Gaspar

Se não gostam de manifs.,
talvez gostem de sondagens
,

tomem lá que é de graça







No Dia Internacional da Mulher

Uma justa homenagem

Há 70 anos na Itália

 [ foi hoje colocada uma Adenda ao post "Alto e pára o baile"]
Uma página gloriosa -
a greve da classe operária de Turim-








Enquadramento:

M A R Z O 1943
«A fornire l’occasione fu un provvedimento emanato dal regime per supplire alle difficoltà causate dai bombardamenti che introduceva un’indennità straordinaria per i lavoratori sfollati (concessione di 192 ore di paga, pari ad un mese di salario), provocando la reazione di quelli non sfollati che chiedevano l’assegnazione delle 192 ore per tutti.
Il 1° marzo, una prima agitazione programmata alla Fiat Mirafiori fallì senza riuscire a generalizzare la protesta.
Il 5 marzo, ancora alla Fiat Mirafiori, alcuni reparti delle officine ausiliarie entrarono in sciopero, ma l’iniziativa non si estese a tutto lo stabilimento. L’agitazione riuscì invece negli stabilimenti delle Officine Rasetti dove l’astensione dal lavoro fu quasi totale.
La notizia delle proteste si diffuse ben presto tra i lavoratori delle altre fabbriche cittadine, innescando, come una miccia, una lunga serie di scioperi che durarono fino alla metà del mese diffondendosi poi in tutto il Piemonte e, da qui, nelle principali fabbriche lombarde, liguri, venete ed emiliane fino a provocare "la paralisi di tutta l’industria del Nord" [V. Castronovo, 1987].
Il 6 marzo sospesero il lavoro per l’intera giornata i dipendenti della Microtecnica, e l’8 marzo l’agitazione si diffuse a "macchia di leopardo" coinvolgendo contemporaneamente altri stabilimenti cittadini.
La protesta degli operai torinesi era per il regime una fonte di grande preoccupazione: la mattina del 9 marzo, Carmine Senise, capo della polizia inviava a tutti i prefetti un telegramma per informarli come "una notevole percentuale operai si est astenuta contemporaneamente dal lavoro. Pregasi mantenersi vigilantissimi" [U. Massola, 1973]. Le parole di Senise caddero però nel vuoto. A Torino lo sciopero era ormai lanciato e coinvolgeva una porzione sempre più compatta di lavoratori che rivendicavano l’aumento del salario e la concessione dell’indennità di sfollamento (192 ore).
L’11 marzo a Roma Mussolini esprimeva la sua ostilità riguardo agli scioperi torinesi davanti al direttorio del Partito Fascista augurandosi che Torino non desse "anche in questa guerra, l’esempio che diede nella scorsa, nel 1917" [E. e D. Susmel, 1966]. La mattina dello stesso giorno, altri dieci stabilimenti fermavano i macchinari.
Gli scioperi continuarono coinvolgendo un maggior numero di lavoratori ai quali si univano, dal 12 marzo, anche i tranvieri che esigevano il pagamento del carovita e delle 192 ore.
La durissima repressione (furono circa 850 gli arresti e centinaia i ritiri degli esoneri) e la sostanziale concessione delle principali rivendicazioni economiche (fu accordata l’indennità di guerra) fecero spegnere giovedì 18 marzo marzo la protesta di circa “100.000 operai torinesi”; così li quantificava l’Unità del 15 marzo 1943.
Le giornate del marzo 1943 rappresentarono un evento rilevante non solamente sul piano economico ma soprattutto su quello politico: infatti, il malcontento economico “aveva fatto da base ad una protesta che i manifestanti comunisti avevano indirizzato contro la guerra e il fascismo”. [R. Battaglia, 1964].
Il regime, che era stato costretto a "rispondere positivamente ad un’iniziativa partita dagli operai" [C. Dellavalle, 1980], appariva ora fortemente ridimensionato, messo a nudo in tutti i suoi punti deboli, : viceversa gli operai apparivano come il primo soggetto sociale in grado di contrastare la politica fascista per altro in grave crisi.
Le giornate del marzo 1943 erano perciò destinate a non rimanere un episodio isolato.
L’estensione ad altre aree e ad altre città della protesta stava a sottolineare che gli scioperi degli operai torinesi avevano dato voce ad una situazione di grave e diffuso disagio. E assumevano perciò una valenza politica generale.
A G O S T O 1943
Caduto il regime fascista il 25 luglio del 1943, il governo Badoglio per scongiurare ogni forma di protesta mantenne un rigido controllo nelle fabbriche utilizzando anche l’esercito. Tra il 17 e il 20 agosto dello stesso anno gli operai torinesi entrarono in sciopero per richiedere l’uscita dell’Italia dal conflitto. Furono i bombardamenti del 16 di agosto che provocarono ingenti danni alla città, la scintilla che fece esplodere il malcontento operaio, [tabella 12].
La mattina del 17 agosto la protesta iniziò alla Grandi Motori assumendo connotazioni drammatiche (all’uscita degli operai dalla fabbrica le truppe avevano risposto con il fuoco provocando il ferimento di sette operai, uno dei quali morì) e si diffuse, nei giorni successivi in tutte le altre fabbriche cittadine. Una prima avvisaglia di sciopero si ebbe il 18 agosto, quando le maestranze delle Officine Rasetti e della Grandi Motori si astennero dal lavoro, ma fu il 19 agosto che l’astensione dal lavoro fu totale: le fabbriche si fermarono supportate nella protesta dai tranvieri e dalle categorie degli impiegati, degli artigiani e dei commercianti.
Il giorno successivo arrivò a Torino il ministro del lavoro Piccardi che raggiunse con i rappresentanti degli operai importanti accordi: il riconoscimento delle commissioni interne, la scarcerazione dei detenuti politici e il ritiro dalle officine delle truppe e dei carri armati e il 21 agosto le fabbriche torinesi riprendevano regolarmente il lavoro
Gli scioperi dell’agosto del 1943 si differenziarono da quelli del marzo per la modalità di esecuzione (i lavoratori uscirono dalle officine e si riversarono lungo le strade cittadine) e per le rivendicazioni: la fine della guerra si univa ad un altro tipo di richieste (ritiro delle truppe dagli stabilimenti, scarcerazione dei detenuti politici, ritardo del coprifuoco, libertà di stampa e la rimozione dalle cariche civili e militari dei funzionari fascisti che avevano dimostrato atteggiamenti brutali contro gli operai) che davano alle lotte dei lavoratori un marcato tratto di politicità.
La caduta del regime avrebbe dovuto coincidere con la fine della guerra: questa era l’interpretazione comune non solo agli operai, ma anche a gran parte della popolazione, e le agitazioni di agosto promosse dai lavoratori torinesi ebbero il merito di tradurre quello che era un "desiderio diffuso in necessità politica" [C. Dellavalle, 1980].
S E T T E M B R E 1943
L’occupazione tedesca, in seguito alla crisi dell’8 settembre, ebbe sull’industria piemontese pesanti riflessi negativi, facendo registrare una generale caduta degli indici produttivi.
A ciò si doveva aggiungere il peggioramento delle condizioni operaie dovute all’inconsistenza dei salari in relazione al costo della vita (aumentato in seguito all’occupazione nazista), alle pessime condizioni di lavoro all’interno delle fabbriche e alle difficoltà nel reperimento di generi alimentari di prima necessità (oramai disponibili solo alla borsa nera dove avevano raggiunto prezzi molto elevati), motivi che, verso la metà di novembre, innescarono una nuova ondata di proteste.
N O V E M B R E 1943
Il 16 novembre lo sciopero iniziava alla Fiat Mirafiori, dove tutti i quadri dello stabilimento (operai, tecnici e impiegati) si astennero dal lavoro, dando l’esempio alle altre fabbriche torinesi. Tra il 17 e il 20 novembre l’azione proseguì compatta: tutte le industrie cittadine erano in sciopero e nessun settore produttivo entrò in funzione.
I lavoratori chiedevano "l’aumento dei salari e delle razioni alimentari" [M. Giovana, 1962] e il 20 novembre gli operai decisero di inviare le ricostituite commissioni interne a trattare col comando germanico che promise miglioramenti se i lavoratori avessero ripreso il lavoro. In caso contrario il Reich tedesco non avrebbe più tollerato nessuna interruzione della produzione. Lo sciopero fu interrotto per una settimana e solo il 25 novembre le fabbriche riavviarono i macchinari.
Il 30 novembre i vertici tedeschi, in un incontro con le commissioni degli operai Fiat, che però rappresentavano tutte le maestranze torinesi, resero note le loro proposte che non corrispondevano alle promesse fatte ai lavoratori: estensione a tutta la famiglia operaia del supplemento pane del 75% dato al capofamiglia; carte annonarie supplementari; blocco dei prezzi e aumento dei salari del 30%.
La reazione operaia a queste proposte giudicate insoddisfacenti non tardò ad arrivare e si materializzò in uno sciopero che coinvolse il mattino del 1° dicembre le maestranze di svariati impianti cittadini, senza però toccare lo stabilimento di Mirafiori (presidiato da reparti armati tedeschi), della Spa e dell’Aeronautica dove gli operai rimasero sotto il tiro delle armi tedesche fino alla ripresa del lavoro.
Le intimidazioni tedesche sugli operai di Mirafiori resero "orfani" della forza principale i lavoratori degli altri stabilimenti torinesi, che prolungarono lo sciopero di 48 ore, ma furono poi obbligati ad interromperlo.
Gli scioperi del novembre e del dicembre 1943 contribuirono comunque al raggiungimento di rilevanti obiettivi, economici e politici.L’aumento del 30% dei salari, la trasformazione dell’indennità concessa in aprile in indennità di presenza, l’estensione a tutti del pagamento delle 192 ore e il contributo in viveri che le aziende e i tedeschi si impegnavano a versare, costituivano infatti per i lavoratori torinesi delle concessioni tutt’altro che marginali sul piano economico.
Dal punto di vista politico gli scioperi rafforzarono invece le posizioni dell’antifascismo politico: gli operai rappresentavano un grande potenziale di conflittualità da riversare contro il regime nazifascista e furono proprio le maggiori voci di opposizione al regime (azionisti, comunisti e socialisti) a "orientare questa forza generale in senso più esplicitamente politico" [C. Dellavalle, 1993]. Tutto ciò avverrà con lo sciopero generale del 1° marzo 1944. »


04 março 2013

Não, não deixo passar e não me calo

Alto e pára o baile !


Lendo posts em blogues e comentários de diverso tipo nos media sobre as manifestações há duas coisas, de muito diferente importância, que não posso deixar passar em claro e que me tiram do sério.


Uma, que é acessória, é a quantidade de coisas que uma série de pessoas consegue ver numa manifestações como a de Lisboa com imensas dezenas de milhares de pessoas, entre as quais destaco a que nos garante que esta era uma manifestação com gente mais velha quando eu, pela minha parte, podendo reconhecer que havia razões para uma maior participação de reformados, achei que a componente dominante era de gente jovem, em medida similar à de 15 de Setembro.

A outra, e esta sim é que é perigosa e sofisticada, é que depois de, no próprio sábado à noite, ter visto e ouvido  com desgosto Daniel Oliveira no "Eixo do Mal" a dizer praticamente o mesmo, ouvi hoje no noticiário das 12 hs. da TSF o politólogo Carlos Jalali a dizer que, para além da contestação às medidas e à política do governo, as manifestações também eram «contra o funcionamento do sistema político e aqui incluiria também os demais partidos da oposição».

Ora, sobre isto, quero apenas anotar o seguinte:

Se quem diz isto porventura o diz porque está a pensar na incerteza das futuras opções eleitorais dos que agora tão combativamente se manifestam, então impõe-se salientar que eu não conheço nenhuma pessoa responsável do PCP ou do BE que tenha arriscado previsões ou adivinhado facilidades sobre o complexo problema da transformação do descontentamento generalizado em novas e diferentes opções de voto.

Dito isto, impõe-se dizer que é ou uma velhacaria indigna ou uma patetice lamentável, a respeito de uma manifestação em que no centro das suas reclamações e reivindicações está a política do governo e desta vez até uma forte exigência da sua demissão, em que praticamente não há palavras de ordem ou cartazes que espelhem o que alguns comentadores e sociólogos e politólogos querem impingir-nos, em que críticas, indignações e aspirações que têm sido constantes nos discursos políticos do PCP e do BE se expressam de forma dominante sob fórmulas aproximadas ou mesmo coincidentes nas manifestações, vir depois dizer que o PCP e BE levam na tola tanto como o partidos do governo.

Uma explicação benévola para esta destrambelhada (mas não inocente no caso de alguns) operação ideológica e política pode estar em que os seus comandantes ou autores disponham de uma máquina que eu não tenho e que acho mal se já existir: aquela máquina que, por fios ou ondas hertzianas assegure a ligação de cada um destes comentadores e politólogos ao pensamento reservado de milhões de cidadãos e que lhes permite assim saber o que os cidadãos não dizem na praça pública.

Desculpem lá mas e se fossem
 dar uma volta ao bilhar grande ?


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Adenda em 5/3: Sem amalgamar posições, quero anotar que, no Público de hoje, o por mim muito estimado José Vítor Malheiros, referindo-se às manifestações de dia 2, salienta a certo passo que «nenhum partido, nenhuma coligação de partidos conseguiria reunir esta maré e, se houvesse partidos, eles desmobilizariam as pessoas». Sobre este ponto, parece-me adequado recordar que, salvo algumas promovidas nos anos mais recentes pelo PCP, desde 1976 até hoje as manifestações convocadas por partidos não têm qualquer tradição ou expressão significativa, pelo que, havendo certamente novidades, não é aqui que agora está uma. Mais adiante, J.V. Malheiros escreve que «perante uma grande manifestação unitária contra o Gverno e a austeridade, haverá uma plataforma mínima de entendimento que possa emergir entre os partidos que se reclamam da esquerda, em nome da emergência nacional ? Não, porque o PS é pró-troika. Bom, e só entre o PCP e o BE ? Também não, porque...». Sobre esta questão permito-me apenas remeter os leitores para os três últimos parágrafos, que, a respeito de outro autor, escrevi aqui. E termino estendendo a José Vítor Malheiros o convite que aqui, nos três últimos parágrafos, dirigi há dias ao Prof. André Freire.

Por uma alternativa ao desastre




A imediata renegociação da dívida pública – nos seus prazos, juros e montantes. Um processo que envolve: o apuramento e a rejeição da componente ilegítima da dívida; a diversificação das fontes de financiamento do Estado; a anulação ou renegociação de contratos das chamadas Parcerias Público-Privadas; a assumpção de um serviço da dívida compatível com as necessidades de crescimento económico e criação de emprego. Uma proposta que ganha redobrada pertinência, num momento em que se assinalam 60 anos sob o processo de renegociação da dívida Alemã, com os resultados que se conhecem.



O aumento dos salários, a começar pelo Salário Mínimo Nacional, das pensões e dos apoios sociais. Elemento não só indispensável para combater injustiças na distribuição no rendimento, mas também, como o principal factor de estímulo ao mercado interno e ao crescimento económico.

A defesa e dinamização da produção nacional – na agricultura, indústria e pescas - por via de um programa de substituição de importações, do controlo dos custos dos factores de produção, da facilitação do acesso ao crédito através da CGD por parte das PME´s, do controlo de importações.

O fim das privatizações e a recuperação da propriedade social dos sectores básicos e estratégicos da economia a começar pela banca.

A alteração radical da política fiscal, rompendo com o escandaloso favorecimento da banca, da especulação financeira, dos lucros dos grupos económicos nacionais e transnacionais e aliviando a carga fiscal sobre as massas laboriosas. Uma política que promova o alargamento da base e o aumento da fiscalização tributárias, a significativa redução dos benefícios fiscais para o capital, a diminuição do IVA, o combate à fraude e evasão fiscais, o fim dos paraísos fiscais (sistema mundial off-shore), a efectiva tributação dos ganhos mobiliários, do património de luxo e da especulação bolsista.

A valorização de todas as funções sociais do Estado como aquisição e condição de desenvolvimento das condições de vida do Povo português. Estabelecendo, de facto, o alargamento e a democratização do acesso ao Serviço Nacional de Saúde e à Escola Pública, assim como a defesa do carácter público e universal da segurança social.^

O efectivo cumprimento da Constituição da República e a intransigente defesa da soberania nacional face às imposições e condicionalismos impostos pelas grandes potências e pela União Europeia.


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Ai minha mãezinha...

E o Óscar da Imbecilidade vai para ...


Ao contrário do que alguns poderiam supor, é com todo o gosto que chamo a atenção para esta crónica no Expresso desta luminária do reaccionarismo e da alarvice que se dá pelo nome de Henrique Raposo e me apresso a fornecer o respectivo link.
É certo que por razões de higiene política, de idade e consequente falta de pachorra já nem vou discutir a par e passo os argumentos expendidos por este jovem talassa, além do mais por que, mesmo depois dos ares condicionados, considera Zita Seabra uma fonte idónea.
Limito-me unicamente a observar que o autor desta lenga-lenga lunática e paranóica escreve a certa altura o seguinte: «Portanto, é de admitir a seguinte hipótese: se Cunhal controlasse o PCP em 57/58, aquele partido teria boicotado Humberto Delgado, tal como boicotou outros candidatos após o regresso de Cunhal (1960)
Depois disto, é naturalmente urgente rever todos os livros de história contemporânea de Portugal e ir lá escrever que Cunhal boicotou outros candidatos presidenciais que nunca não houve (porque depois de 1958 acabaram as eleições directas para Presidente da República).

Coitado do "Público"

Só sabe que "não é de ontem"

Na página 8 do Público de hoje, numa pequena notícia sobre «imagens enganadoras» que «circularam nas redes sociais», debaixo de duas fotografias ( segunda é a que está acima) apõe-se a legenda de que «a primeira imagem é de Istambul, segunda não é de ontem » (queria o jornal dizer «de sábado»). E depois escreve-se: «Já ontem,  houve quem publicasse no Facebook uma fotografia aérea do Terreiro do Paço cheio de pessoas. Esta imagem, porém, não é do protesto de sábado. As imagens televisivas mostraram que, em plena luz do dia (como na fotografia), a praça estava com muito menos pessoas. Alguns utilizadores do Facebook comentaram também o óbvio: actualmente o arco da Rua Augusta está tapado para obras de manutenção e não descoberto, como na fotografia».

Ou seja: nem quem escreveu a notícia, nem o editor nem o paginador foram capazes de identificar a foto acima como sendo da manifestação da CGTP no Terreiro do Paço em 29 de Setembro de 2012 (ver post e imagem aqui), ou seja, há apenas cinco meses..

Mas aqui caridosamente lhes perdoo: ao fim e ao cabo, como todos sabemos, concentrações no Terreiro do Paço é coisa que há todas as semanas.

03 março 2013

E agora sabe-se lá porquê...

D. Quixote de Nazim Hikmet


Don Quijote 
Caballero de la juventud inmortal: 
a los cincuenta años se dejó arrastrar 
por su idea, que latía en su pecho.


Una mañana de julio salió a la conquista 

de lo bello, lo recto, lo justo.

Ante sí: el mundo 

con sus gigantes tontos y mulos.
Debajo: Rocinante.
Triste, pero heroico.

Yo lo sé: si por azar cayeras en la pura nostalgia 
y tienes además un corazón más blando que la nieve, 
no habrá más caminos, Don Quijote mío, no habrá más caminos.

Hay que luchar con los molinos.
Tienes razón.
Sin duda, tu Dulcinea es la mujer más bella de la tierra.
Sin duda hay que gritarlo a la cara de los hipócritas.
Te arrojarán a tierra.
Te apalearán ferozmente.

Pero tú, paladín invencible de nuestra sed, 
seguirás ardiendo como una llama 
firme dentro de tu coraza de hierro.

Y Dulcinea se volverá doblemente más bella.